A scattarla fu un reporter di nome Kevin Carter nel marzo del 1993, nel Sudan massacrato da una delle piaghe atroci che l’Occidente ha imparato a conoscere indirettamente, la carestia.
Carter voleva cambiare la percezione del nostro ricco mondo, nei confronti delle condizioni di vita che l’Africa era costretta a subire, ma a cambiare di più fu lui. Lo scatto venne pubblicato il 23 marzo del ’93 dal New York Times ed un anno più tardi, Carter vinse il prestigioso premio Pulitzer per la fotografia, solo pochi mesi prima di decidere di lasciare questa vita e tutto ciò che lo legava al suo disagio esistenziale.
Era abituato a vedere scene del genere lui.
Lui i flagelli delle guerre li raccontava in un click, le storie che toglievano il respiro con la potenza di mille parole, le fermava in una sola immagine. La missione umanitaria organizzata dall’ONU in quella terra africana era una di quelle storie.
Il gruppo di fotoreporter di cui lui faceva parte, arrivò a bordo di un elicottero in questo piccolo villaggio dove era stato allestito un campo di primo soccorso, verrà poi reso noto da un collega di Kevin, Josè Silva, solo anni dopo, che una volta scesi, si sarebbero potuti trattenere solo trenta minuti.
Così avvenne. Una volta atterrati, furono circondati dalla gente disperata che chiedeva loro del cibo.
I reporter iniziarono ad aggirarsi per il villaggio ritraendo fame e disperazione ed è lì che si accorsero del bambino. Un bambino lasciato solo dai genitori corsi all’elicottero per chiedere del riso, con il volto riverso a terra e un avvoltoio che si avvicinava alla sua preda.
Carter iniziò a scattare a poca distanza dai soggetti ritratti. Il racconto narra che i fotografi vennero richiamati immediatamente al velivolo per il ritorno e non fu possibile aiutare il bambino. Questo è lo scatto che fece dannare Kevin per il resto dei suoi giorni. Vinse, ma insieme alla fama arrivò la calunnia e i sensi di colpa. Venne additato come il mostro che se ne fregò lasciando morire una creatura indifesa.
Non venne mai data una spiegazione su quello che successe prima e dopo aver premuto il pulsante di scatto, ma di parole ne vennero dette molte sull’inumanità di un uomo che passò come “il vero avvoltoio” di tutta la storia.
La sua vita divenne un inferno, la depressione fece capolino, assieme all’abuso di droghe e farmaci e scelse di farla finita suicidandosi con il gas di scarico della sua auto, lasciando una figlia, una lettera dove scrive:
“Sono depresso… senza soldi per l’affitto… senza soldi per i bambini… senza soldi! Sono ancora vividi i ricordi di quello che ho visto: bambini denutriti, violenza per le strade, stupri perpetrati dagli stessi poliziotti che dovrebbero portare la giustizia. Io me ne vado e spero di raggiungere Ken (un suo amico fotografo morto nello stesso anno)”.
La domanda che tutti si ponevano era: “Perché, invece di fotografare, non ha aiutato il bambino in difficoltà?”
Solo parecchi anni dopo emergerà la verità. Il quotidiano El Mundo fece un viaggio nel 2011 per cercare di fare chiarezza sulla faccenda e riuscì ad incontrare una responsabile di quel campo, Florence Mourin, che all’epoca coordinava i soccorsi, la quale raccontò che il braccialetto al polso del bimbo, altro non era che la prova che fosse stato registrato dal soccorso.
La sigla identificativa era T3, dove T stava per “malnutrizione severa” e il numero, in questo caso il 3, l’ordine di registrazione della persona. Il piccolo Kong Nyong, questo il nome del bimbo, era stato il terzo ad essere inserito nel programma di aiuti. Non venne ucciso dall’avvoltoio e nemmeno dalla fame e gli stenti, morì diversi anni dopo a causa della febbre.
Ma questo Kevin non lo seppe mai.