Un libro maestoso fin dalla copertina, perfetto nella sua imperfezione di fondo. Incredibilmente capace di lasciare un segno tangibile in chi legge
Prima di tutto, un piccolo sfogo: caro Jude, vattene affanculo tu, il tuo passato di merda, il tuo sputare su ogni piccola fortuna che ti è capitata nell’età adulta, ma soprattutto portati affanculo tutti i tuoi fottutissimi, colpevolizzanti, manipolativi “mi dispiace”.
Ooooh là, bene, mi sento meglio. Erano circa un migliaio di pagine che ce l’avevo in canna.
Detto ciò, parliamo del libro. E che libro, ragazzi.
Allora, bisognerà andare per gradi, perché il secondo (non il quindicesimo a coronamento di una carriera strepitosa, il secondo, porca miseria) libro della Yanagihara è qualcosa che definire monumentale è poco, o comunque non esaustivo. Chi me l’ha consigliato l’ha definito “un capolavoro. Perfettibile, ma un capolavoro”. Trovo che abbia perfettamente ragione. Purtroppo però nessun giudizio, nemmeno il più entusiastico può prepare un lettore a quello che proverà immergendosi in A Little Life (questo il titolo originale). Personalmente poche volte ho vissuto un libro così tanto sulla mia pelle, provato un dolore così vivido unito a un bisogno urgente di finire le pagine più dure e poi il piacere, il sollievo quasi fisico nell’affrontare i (rari) momenti di serenità. Ma proviamo ad andare con ordine
La trama di Una vita come tante
Protagonisti sono quattro amici, Willem, Malcom, JB e, per l’appunto, Jude. Il libro racconta la loro evoluzione dal college dove si sono conosciuti, fino all’età adulta. Attorno a loro ruotano alcuni personaggi secondari ma fondamentali, come Harold e Andy, rispettivamente professore e medico di Jude. Donne non pervenute, o comunque ridotte a ruoli marginali.
Nello specifico Malcom è un ragazzo nero di ottima famiglia che sogna di diventare architetto e che nasconde la sua indecisione cronica con silenzi e infinite liste di pro e contro. Willem è un ragazzo tanto bello quanto poco cosciente di sé, che sogna di fare l’attore. JB, invece è un pittore di origine hawaiana (come l’autrice) cresciuto in una famiglia di sole donne che si protegge dalle sue insicurezze con una buona dose di cinismo e un apparente egoismo. Jude, infine, è un futuro avvocato di successo che nasconde dietro un’andatura claudicante e sotto le sue camicie a manica lunga un passato indicibile di abusi e privazioni.
Il piano spazio temporale
La vicenda è ambientata a New York, in un periodo indefinito che può andare dai giorni nostri all’uscita dei primi cellulari, quindi direi fine anni 90. Nell’economia della storia il tempo, però, non ha un’andatura costante, ci sono enormi salti in avanti, flashback di parecchi anni indietro e, nel complesso, non sembra avere un ruolo determinante per puntellare i fatti. Dell’incedere del tempo si percepisce solo la sua forza modificante, il suo agire inesorabile sulle vite di questi quattro ragazzi. Feste come il capodanno e il giorno del Ringraziamento sono solo momenti schedulati che, pur citati spesso, non aggiungono nulla alla comprensione della storia; il tempo pensato dalla Yanagihara si vive sottopelle, silenzioso e determinato come un fiume che erode e modella le rocce dei suoi argini. Stesso discorso per la città in cui vivono Jude e gli altri, che è New York, per l’appunto, ma di cui sappiamo poco altro. Quello che ci rimane di lei lo dobbiamo a qualche riferimento geografico che Jude ci regala con le sue passeggiate, eppure, pur restando sullo sfondo, completamente priva di tratti distintivi, la città è comunque presente nei piccoli dettagli delle vite di ognuno dei protagonisti, nel loro modo di vivere gli spazi, le relazioni, la crescita.
Lo stile di Yanagihara
Il traduttore italiano della Yanagihara, Luca Briasco, ha definit Una vita come tante un romanzo imperfetto. Credo sia una definizione calzante, laddove l’imperfezione riesce in quel miracolo di imprimere con ancora più forza un’immagine. Il mio primo caporedattore, che di donne ne sapeva a pacchi, mi ripeteva sempre che il difetto, se offerto con stile, può essere più efficace della perfezione, un po’ come l’incisivo sbilenco di Letitia Casta, un’apparente piccola ombra in grado di valorizzare in maniera immortale un viso di per sé perfetto.
Ed esattamente come l’incisivo di Letitia, lo stile della Yanagihara non è perfetto. Alle volte si ha la sensazione di trovarsi davanti a delle ripetizioni, a un filo logico che si attorciglia, che mostra il fianco a qualche critica. Eppure, la mia sensazione nel leggere questo romanzo, è che anche l’imperfezione trova il suo senso più profondo nella meravigliosa impalcatura che questa autrice ha costruito. Definirei questo libro un “casino organizzato”, un perfetto delirio di gradazioni di grigio (perché questo libro non è a colori, mai) in cui trovano posto punti di vista differenti, un narratore extradiegetico inframezzato dal racconto in prima persona del solo Harold, uno dei personaggi in cui la Yanagihara raggiunge delle vette secondo me altissime. Per lui, pochi tratti, a volte eterei e a volte “messi giù col falciotto”, che hanno la capacità di restituire come un schiaffo in faccia tutto l’amore paterno, il dolore, la rassegnazione, la comprensione più profonda che questo personaggio prova per Jude. Ma non divaghiamo, parlavamo dello stile della Yanagihara: un apparente budello, un trappola di fili di seta, costituita di fatti e sensazioni e momenti che ha come epicentro il dolore di Jude, e a cui si arriva, pagina dopo pagina con una sapiente spirale di indizi. E più si scende in profondità, più si percepisce la verità, e più questa è vicina, più ci si ritrova con ogni singola fibra del nostro corpo bloccata da una pece densa e collosa. Ho letto in giro che per scrivere A Little Life Hanya Yanagihara ci ha messo un anno e mezzo scrivendo tutti i giorni dalle 21 a mezzanotte, sabato e domenica compresi. Non stento a crederlo.
Il tema di Una vita come tante
Sempre in giro, ho letto che questo libro è considerato un caposaldo della cultura gay. Un fantastico libro che parla di amore e amicizia, ovviamente al maschile. Sarà, ma io faccio fatica a vederla così, o almeno non solo così. La scelta di Yanagihara di raccontare un’amicizia maschile mi ricorda tanto la scelta che fece a suo tempo Beckett, madrelingua inglese, di scrivere in francese per costringersi a scavare in maniera certosina il senso di ogni singola parola. Beh, nel raccontare questo intreccio di rapporti maschili l’autrice sembra indagare con una precisione e una ferocia quasi disturbante, portando alla luce i rovesci delle medaglie dei più comuni sentimenti. Perché i non detti, le paure, le piccole vigliaccherie quotidiane fanno parte di sentimenti come l’amore e l’amicizia esattamente quanto gli slanci più fantastici e cinematografici. In Jude, Malcom, JB e Willem c’è tutto questo e il fatto che dietro a loro ci sia, innegabile, la sensibilità di una donna, rende semplicemente più universale il senso di tutto questo libro, e cioè che la vera grandezza della vita sta nell’accettarne la normalità, ma soprattutto l’imperfezione intrinseca che si porta dietro.
Per cui Jude, in definitiva, “mi dispiace”. Mi dispiace averti odiato, mi dispiace aver parteggiato per tutti tranne che per te. Mi spiace essermi trasformato io stesso in un carnefice, incapace di comprenderti e per questo più feroce nel gridarti “te lo sei meritato”. Mi dispiace perché nella tua incapacità di guarire e farti guarire, mi hai insegnato una cosa fondamentale, e cioè che di amore non se ne si ha mai abbastanza, anche se fa male. Anche se non serve. Anche se è sbagliato. Anche se, in molti casi, è destinato a finire.
Ps: nel sommario parlo anche della copertina. Beh, quella che sembra essere una smorfia di dolore in realtà è un orgasmo: questo libro andrebbe comprato anche solo per questo.
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