Parlare di quello che unanimemente viene considerato il capolavoro di William Burroughs è un viaggio complicato: la sensazione è la stessa di quando si prova a raccontare un sogno, meglio ancora un incubo. La tensione costante, il senso strisciante di catastrofe, lo straniamento, il disturbo perenne, così come l’automatico atto empatico nei confronti dell’autore, si confondono lasciandoci tra le mani qualcosa che senti che ti ha già segnato profondamente, ma non sai come ci sia riuscito. O forse sì?
Pasto nudo, o Naked Lunch, è considerata l’opera più luminosa tra i libri di quel genio drogato che era William Burroughs e, anche solo per quanto riguarda la natura anticonvenzionale della sua genesi, è un’opera che merita di essere letta. Pasto nudo, origina infatti da una serie di appunti, di fogli volanti, che Burroughs scrisse praticamente sempre sotto l’effetto di eroina nel periodo in cui si trovava a Tangeri, in Marocco. Un esilio a cui lo scrittore si sottopose in seguito all’omicidio involontario (forse sì, forse no, forse chissà) della moglie, mentre lui giocava a fare il Guglielmo Tell con in mano una rivoltella e lei probabilmente teneva in testa una mela. Gli scritti, vennero poi raccolti e riordinati grazie anche allo sprone degli amici Kerouac e Ginsberg, che lo raggiunsero in Marocco, e presero la forma del libro (più o meno) che abbiamo sottomano. Di Ginsberg è anche il titolo del libro, o meglio, Keruoac in maniera geniale estrasse il titolo da una poesia di Ginsberg dedicata proprio al lavoro di Burroughs: “Un pasto nudo è naturale per noi, noi mangiamo sandwiches di realtà. Ma le allegorie sono tali lattughe. Non nascondete la follia.”
Pasto nudo, tutta la follia di Burroughs
E William Burroughs non ha fatto nulla per nasconderla la follia, anche se parlare di follia in questo caso è sbagliato. Anzi, Burroughs, in mezzo ai quei fogli e a quei pensieri apparentemente sconnessi prodotti in quel di Tangeri, ha cesellato un’opera che si può apprezzare perfettamente sia se si decide di focalizzarsi sul racconto in sé (vi avviso, di trama neanche l’ombra, per cui bisogna essere forti e navigare a vista) sia analizzando il romanzo in chiave fortemente allegorica. Partendo dalla prima chiave di lettura, Pasto Nudo è semplicemente un viaggio all’inferno, il peggiore inferno che si possa immaginare. Si tratta della narrazione dei deliri dettati dalla tossicodipendenza dell’autore in grado di elaborare un mondo distopico in cui i protagonisti, ridotti a ombre, sono semplici pezzi di carne che si muovono senza uno scopo. Non c’è coscienza e non c’è sentimento in nessuno dei personaggi toccati o solo sfiorati dalla penna di Burroughs. Lee (il protagonista), ad esempio, vive dilaniato dal bisogno di roba e dal terrore di essere braccato da spacciatori e polizia, l’umanità intera è divisa tra anime senza più un’anima, ridotte a uno stato larvale e soggiogate da un macabro controllo della mente e del fisico, e tra chi questo controllo lo padroneggia, come il Dottor Benwey, “un manipolatore e coordinatore di sistemi di simboli, un esperto di tutti gli aspetti dell’interrogatorio, del lavaggio del cervello e del controllo”, come lo definisce l’autore stesso. Ogni pagina gronda annientamento mentale, e le immagini forti (che bell’eufemismo della fava, se lo sentisse Lee mi prenderebbe a calci in culo) utilizzate da Burroughs nel descrivere la condizione umana riescono pur nella loro assurdità a colpire e farsi strada a suon di pugni. Il secondo punto di vista, invece, vede in Pasto nudo l’allegoria pressoché perfetta dell’America degli anni 50, soggiogata dal maccartismo, dal controllo feroce di ogni sorta di stimolo (lo studio dei messaggi subliminali, ad esempio, è proprio di quegli anni), dalla paura dell’atomica e dell’avanzare del comunismo. America dunque, intesa come luogo di “non libertà” dove tutti, non solo gli scrittori della Beat Generation, trovavano più spine che reale stimolo vitale e dove la libertà, tanto sbandierata quanto pretesa, altro non era che la facciata ben intonacata di un sistema totalitario.
La penna di William Burroughs in Pasto nudo è magistrale
Come arrivare a questo risultato dando sfogo a quello che sembra essere solo il macabro e perverso delirio di una persona disturbata? Beh, innanzitutto bisogna essere Burroughs e quindi già la vedo grigia per tutti noi. Ma poi bisogna avere quella capacità, propria di pochi, di saper gestire le parole andando oltre ogni sorta di convenzione letteraria, rivoltando con sapienza peso e misure di -per dirla alla Peirce- significato, significante (in questo caso inteso come costrutto) e referente. Finto-semiotica a parte, ciò che colpisce davvero dello stile di William Burroughs (tra l’altro uno dei più assennati utilizzatori del cut-up) è la capacità fenomenale di sperimentare “lo scrivere” utilizzando diversi registri narrativi e al contempo mantenere una coerenza d’insieme lucida e puntuale. I punti di vista variano così come il peso delle parole, che riescono a passare con facilità da un registro quasi poetico al freddo resoconto clinico-medico, inframezzando così pezzi di una pulizia e scorrevolezza uniche a improvvisi rallentamenti, caratterizzati da “fastidiose” interferenze dell’autore a corredo di teorie che virano dal fantascientifico alla pura invenzione.
Vogliamo dargli un giudizio? Non è facile. Anche perché in prima battuta mi viene da dire solo che Pasto nudo mi ha ferito, mi ha disturbato, mi ha fatto incazzare e mi ha fatto ingoiare merda in ben più di una pagina. Il fatto è che è riuscito a fare tutto ciò in maniera perfetta, con stile, colpendo dove doveva colpire e arrivando dove voleva arrivare, fragoroso, esplosivo e soprattutto inaspettato, come una palla corta giocata dalla Sharapova.
Un delirio così ben architettato potrebbe, me ne rendo conto, spaventare molti lettori ma se lo prendete con la giusta calma potrà offrirvi un’esperienza davvero illuminante.
Preparatevi a ingoiare merda, però.