Le mille Luci di New York è un libro che racconta con un linguaggio arguto, ironico e molto presente quel preciso momento della vita in cui ti rendi conto che non riesci più a fermare la tua corsa verso il tracollo (in questo caso con possibile lieto fine)
Le mille luci di New York di Jay McInerney, trama: il protagonista, un giovane giornalista impiegato nel reparto Verifica dei Fatti di una delle riviste più famose di New York, è caduto dentro una spirale vorticosa fatta di notti in bianco, cocaina e completo disinteresse al lavoro. La sua vita sta andando a rotoli, sua moglie, una super modella, l’ha lasciato senza troppe spiegazioni e da quel momento tutto ciò che faceva parte del suo mondo, i suoi punti saldi, i suoi sogni hanno iniziato velocemente ad andare in frantumi. Quello che gli resta è provare a dimenticare, alternando notti fuori dalle righe per cercare di non pensare, e gesti fuori di sé, compiuti più per sopire una rabbia temporanea che per provare a raddrizzare sul serio la situazione. In questa discesa a perdifiato verso l’inferno, il protagonista (che non ha nome) perderà anche il lavoro, trovandosi in men che non si dica in uno stallo completo. La caduta verticale verso un buio sempre più nero, però, fungerà anche in qualche modo da salvezza, perché lo aiuterà a squarciare il velo della sua infanzia, a mettere in luce il suo drammatico rapporto con la madre e lo aiuterà, si spera, a trovare le forze per una faticosa risalita.
Raccontato così, Le Mille Luci di New York potrebbe essere derubricato come un libro per molti tratti scontato, con una trama perfetta per una trasposizione cinematografica in salsa hollywoodiana (cosa che peraltro è avvenuta, oltretutto senza lasciare traccia) e con pochi contenuti degni per renderlo memorabile. Tanto per aumentare il carico, questo libro, quando uscì negli Usa a metà degli anni 80 divenne subito un bestseller e questo, si sa, per noi snobbettini del cazzo è senza dubbio un ulteriore valido motivo per giudicarlo con superficialità.
E invece.
E invece McInerney -che quando scrisse questo libro aveva solo 29 anni- è riuscito a confezionare una piccola perla che si regge su due colonne portanti fondamentali: le immagini tipicamente pop di quella che può definirsi una crisi esistenziale e le parole usate per raccontarcele. Partiamo dalle prime: qualunque uomo abbandonato da una donna (e viceversa, suppongo. Non ne ho le prove, ma non credo cambi molto) ha provato tutto quello che McInerney descrive nel suo libro. Vado così a caso e non perché mi siano rimaste particolarmente impresse (no-nnò): soffrire come cani quando si passa in un posto della città condiviso con lei, odiare persino gli alimenti che consumavi con lei, oscillare in maniera vorticosa tra la creazione di sogni di rivalsa e il vittimismo più puro, alternare il mettere in discussione se stessi sia come uomini sia come maschi all’accusa tout court nei riguardi di lei, e lei soltanto, come causa di ogni male. Rivolerla e odiarla, amarla e avere la nausea appena ritorna alla mente il suo nome. Insomma l’ambivalenza tipica di una persona che subisce un abbandono (che poi, il più delle volte abbandono non è).
Immagini banali forse, ma che McInerney riesce a trattare con uno stile e un’intelligenza rara. In primis passandocele con delle intuizioni narrative geniali, cito su tutte quella in cui il protagonista, nel trovare in una vetrina un manichino realizzato con le fattezze della moglie (Amanda, nome non a caso), ricorda come lei, per realizzarne il calco, dovette restare per più di un’ora ricoperta di lattice e con sole due cannucce per respirare, oltretutto pochi giorni di partire e lasciarlo per sempre. La seconda colonna portante, che poi funge anche da fondamenta per la prima, è lo stile che l’autore mette in campo. Innanzi tutto l’uso della seconda persona, un espediente narrativo che raramente si trova in letteratura e che, in questo caso, ha un’efficacia unica. McInerney, col suo “tu”, riesce nel duplice intento di colpirci e allo stesso tempo rendere perfettamente efficace il suo personaggio principale. Ci colpisce perché la seconda persona in narrativa è difficile da digerire, non ci siamo abituati. In pratica l’autore nel suo incipit fa intendere subito che il normale rapporto scrittore-lettore verrà stravolto:
“Tu non sei esattamente il tipo di persona che ci si aspetterebbe di vedere in un posto come questo a quest’ora del mattino. E invece eccoti qua, e non puoi certo dire che il terreno ti sia del tutto sconosciuto, anche se i particolari sono confusi. Sei in un nightclub e stai parlando con una ragazza rapata a zero.”
McInerney ci piazza subito nella scena, rendendoci protagonisti quel tanto che basta da innescare -dopo un primo momento di rigetto- un’empatia pressoché totale nei confronti del protagonista. Almeno oh, a me è successo così.
La seconda valenza del “tu narrante”, invece, è strettamente legata al dramma di questo giornalista, alla sua caduta verso il basso e al suo tentativo di vedere “dal di fuori” una vita che non sente più sua. Quante volte vi è successo? A me un botto. Quante volte vi siete trovati a guardare le vostre azioni, magari le più irrazionali, come se il protagonista di quei gesti non foste voi? Quanti fallimenti avete visto scivolarvi affianco e quante volte avete cercato di distogliere lo sguardo, magari anestetizzandovi cercando lo sbriluccichio delle mille luci della vostra città?
Insomma, e qui la chiudo: questo libro è bello. È bello perché riesce, usando ingredienti universali o se volete addirittura banali, a impastare qualcosa che riesce a insinuarsi con forza dentro di noi, facendoci sentire gli unici destinatari del messaggio (uno dei pregi del pop è proprio questo). E poi, cazzo, è bello perché è scritto bene. E anche solo per questo si merita che voi clicchiate qui sotto.