La mischia
La mischia di Valentina Maini,
Vivere è esplorare la ferita. Non esiste un altro modo di vivere. Non provate a convincermi che esiste. La ferita è bella. La cicatrice necessaria. Io sono una ferita aperta.
Travolto. Travolto dalla freschezza di questo esordio, dalla scrittura raffinata, da questo romanzo così ricco, profondo, solido e audace. Un libro in grado di tenerti incollato per cinquecento pagine, sfacciatissimo modo di presentarsi, così come sono sfacciate la scrittura e l’architettura proposte, questo mirabolante dosaggio tra fatti, pensieri e congetture che resta in equilibrio incomprensibile, un gioco di prestigio sapientemente spericolato.
Non voglio andare oltre con i complimenti perché so di esagerare e rendermi ridicolo quando vengo coinvolto così tanto da un libro, ma un’ultima affermazione fuori luogo me la voglio concedere. Nel mio mondo ideale, tra cinquant’anni ci saranno insegnanti che a scuola, prendendo spunto dalle antologie, faranno leggere agli studenti questo romanzo. Sono diverse le strade per cui un libro può aspirare a diventare un classico, seppure moderno: la strada de La mischia sarà di certo lastricata di tessiture linguistiche.
Vediamo di affrontare qualcuno dei moltissimi elementi che rendono questo libro da leggere. In primo luogo diciamo che si tratta di uno scritto polifonico, tra Bilbao e Parigi, dove però i personaggi principali sono Gorane e Jokin, figli gemelli di militanti dell’ETA, dove però la vera protagonista è Gorane.
Congetture
Adesso so che tutti giriamo per il mondo con la nostra dose in tasca, e che ognuno ha il suo piccione addosso, la sua macchia, e deve andare avanti ed essere felice con la sua somministrazione di dolore giornaliera.
L’architettura del romanzo è mirabolante, un incastro di stili e registri su un letto di punti di vista. L’autrice parte con la presentazione dei personaggi, ma esiste presentazione e presentazione. Dapprima abbiamo un’introspezione onirica e allucinata di Gorane, poi passiamo ad un libro nel libro per Jokin, infine le due voci fuse in una da chissà quale mondo dei genitori. E già la vertigine si concretizza in sostanza, dove il linguaggio non è solo esperimento, ma espressione di una direzione, strada intrapresa con intenzione, dove la forma si fa sostanza.
L’espediente metaletterario si traduce in forza motrice della seconda parte del libro, quando Gorane cerca il fratello a Parigi. E ancora abbiamo: il racconto di Gorane, certo sempre strampalato ma non più disarticolato come in precedenza; le sue registrazioni; i rapporti della polizia; il diario di uno psichiatra; la lettera di un editore. Una scrittura mai ferma, danzante e sfuggente, pronta a ripartire dai punti contrassegnati per disorientare.
Tutto questo, al di là della penna meravigliosa di Valentina Maini, mi ha fatto saltare agli occhi come di tutti i personaggi si hanno alla fine congetture, punti di vista, mai certezze. Anche i verbali delle forze dell’ordine, che dovrebbero segnare il limite dell’oggettività, non sono che falsi punti di riferimento. Innanzitutto per il gusto che l’autrice ha per il gioco (i personaggi che depongono si rivelano attraverso atteggiamenti e parole), poi banalmente perché a stendere i rapporti sono funzionari diversamente ligi al dovere: per esempio c’è molta differenza tra l’atteggiamento dei francesi rispetto a quelli spagnoli, per ragioni anche facilmente rintracciabili; come c’è un grado di spersonalizzazione estremo nel vietare di chiamare i detenuti per nome ma con un numero.
Si viaggia dunque in una liquidità della realtà spinta all’estremo, estremista viene da dire viste alcune implicazioni della trama, ma che forse ne è l’unica lettura possibile, perché costituita da esseri umani diversi, la cui personalità si rifrange in quelle degli altri e conoscere una verità è chimerico e pretenzioso. Un’altra immagine meravigliosa di questa scomposizione delle anime si trova nelle personalità multiple che Gorane si trova a proporre a Parigi, come a volersi nascondere dagli altri e cercare se stessa. Una Gorane che si avvicina passo dopo passo al fratello, quasi a diventare Jokin, a sostituirlo.
Libertà e assenze
Jokin si è abbeverato alla nostra fonte tanto da esserne allagato. Gorane ha opposto il suo rifuta ed è morta di sete.
Non posso dilungarmi troppo, per questo scelgo solo altri due temi che mi hanno colpito, avvertendo che gli spunti presenti nel testo sono molteplici.
I genitori dei gemelli li hanno cresciuti cercando di lasciarli liberi, senza porre paletti, in tutto tranne che nell’ideologia. I due hanno sviluppato personalità opposte ma complementari: Jokin segue la strada dei genitori, Gorane la rifiuta. Però entrambi non sanno quale sia la loro libertà, non sanno adattarsi al mondo e affrontano il disagio con due pigli differenti. Alla fine di tutto, sembra proprio che il risultato sia la mischia, l’inseparabilità dei membri della famiglia, il legame indissolubile che li tiene legati per la gola. Per quale libertà bisogna battersi? Quando si è davvero liberi? Quali legami ci possono rendere liberi?
Infine due righe riguardo al senso di assenza che pervade il libro. Gorane sente la mancanza del fratello, la sua assenza la spinge fin dove non è mai arrivata, il motore del suo andare diventa la ricerca, il desiderio di colmare l’assenza. Così come non ha mai avvertito la presenza dei genitori, e non solo per il loro lasciarli liberi di agire senza confini, ma anche per la loro incapacità di starle vicino. Jokin ha un vuoto interiore che cerca di riempire con terrorismo, musica ed eroina. Nel romanzo è un fantasma, non è mai presenza, è sempre riflesso in qualcun altro, pur nella concretezza degli strascichi che lascia. Questo libro è un continuo inseguimento.
In conclusione accenniamo al finale: poetico e forse l’unico possibile.
Valentina Maini – La mischia