New York diario di viaggio – Prosegue il tour con una visita a Brooklyn, tra sopraelevate e parchetti hipster, nella ispanica Coney Island e, infine, in un pubbettino di Wall Street…
Ogni quartiere di NY è storia a sé e la sua bellezza è proprio questa, una città che in pratica è una scatola cinese, dove i confini, zona per zona, sono definiti e ben visibili. Ciò non vuol dire che questi margini territoriali siano davvero corrispondenti alla realtà delle cose, basta guardare Little Italy, che tutto è, fuorché un quartiere di italiani. Eppure agli occhi del turista mediamente curioso e incline all’entusiasmo, varcare ogni volta un’ipotetica “porta” regala sempre una bella sensazione di scoperta. Tra tutti i quartieri e zone che abbiamo visto, (little Italy, SoHo, Chinatown, Harlem, Queens) forse quello che più ci ha colpito è stata Brooklyn, vera zona residenziale newyorkese (di certo più di Manhattan), in piena crescita e non ancora ripulita di quella patina rugginosa dell’America di qualche decennio fa. La sopraelevata è una presenza rumorosa ma d’effetto, e la presenza di negozietti di alimentari e botteghe da “tutto a un dollaro” fa capire subito che siamo lontani anni luce dagli specchi e le luci di Manhattan. Dagli anni 20 agli anni 80 il quartiere (se quartiere si può chiamare un agglomerato che contiene quasi 4 volte i cittadini di Milano) si svuotò a causa della chiusura di molte fabbriche ed è solo da circa una trentina d’anni che l’East River ha ricominciato a rinascere. Ora, a parte alcune zone ancora non toccate dalla mano santa della riqualificazione (mi son sempre chiesto chi, a un certo punto, decide che un determinato posto deve decollare. Guardate il quartiere Isola a Milano, ad esempio) è una delle zone residenziali più amate dalle famiglie e dai giovani. I locali migliori sono qui, la gioventù “cool” pure. Per capirlo basta farsi un giro nel cuore nevralgico della vita giovane di Brooklyn, il sobborgo di Williamsburg.
Prima di partire, questo particolare distretto mi era stato suggerito da alcuni amici, descrivendomelo come uno dei luoghi di NY più in fermento e più amati dai giovani. E in effetti è così. Provate a immaginare case basse, locali alla moda ma volutamente tranquilli, un parco gremito di ragazzi e ragazze e un mercatino dove vengono messi in vendita prodotti naturali e bevande rigorosamente analcoliche. Ecco, più o meno la cartolina che abbiamo di Williamsbourg è proprio questa. Reale? Non lo so, ma del resto cosa è reale al giorno d’oggi? Lo sono la moda del momento, la distinzione che omologa, i cinema d’essai, le birre artigianali, la passione per il vinile (ah, guardate che qui stanno ritornando di moda le musicassette, sarà il caso di prepararsi), i ragazzi con i baffi e l’occhiale spesso e le femmine reflex-munite anche per andare al cesso? Allora Williamsburg è maledettamente reale. E lo confessiamo, anche molto piacevole, sebbene io e Aga, vestiti come dei profughi, in mezzo a tutta quella bella gente spiccavamo come due triglie da banco in un acquario di pesci ornamentali.
Detto ciò, locali e negozi a parte, sicuramente bellissimi, noi vi consigliamo di arrivare qui il tardo pomeriggio, dirigervi presso il Bushwick Inlet Park e sedervi su una delle panchine che si affacciano sui grattacieli di Manhattan alla vostra destra e sul Williamsburg Bridge a sinistra. Aspettate che il sole si abbassi e rilassatevi, la City vista da qui è quella che mi è sembrata la “New York alla giusta distanza”: tanto vicina da poterla annusare ma abbastanza lontana da non rimanerne invischiati.
Ok, sono stato un po’ troppo poetico, me ne rendo conto.
Per stemperare, dunque, vi consiglio anche di piazzarvi una decina di minuti in uno dei campetti sportivi affianco al parco e ammirare le giovani leve americane che provano a giocare un rudimentale calcio. Perdonali Pirlo, quei rozzi corridori coi piedi a banana, non sanno quello che fanno.
Coney Island
Tanto per farvi capire l’assurdità del nostro itinerario, a Coney Island ci siamo andati solo perché un amico di Agafan, un avvocato di grido per di più, aveva millantato che proprio qui c’è un posto dove si possono mangiare i migliori hot-dog di tutta New York. Solleticati da cotanta possibilità ci siamo recati sul luogo verso metà mattina, in modo da poter organizzare il pranzo, ma anche rilassarci un po’ sulle spiagge di Coney. Quello che si nota una volta scesi dalla metropolitana è la presenza massiccia di poliziotti. Alcuni in divisa e arma d’ordinanza, altri invece praticamente in tenuta antisommossa. Inutile dire che il primo pensiero è corso a scene epiche di The Warriors, dove io e Agafan facciamo la parte dei poveri sprovveduti (nei film americani ci sono sempre due poveri sprovveduti) che finiscono inseguiti da dei pazzi maniaci armati di spranghe e bottiglie rotte.
Comunque, superato il primo impatto, percorrere le tante stradine che corrono parallele in mezzo al Luna Park e finiscono sul lungo mare, ti infila a forza in uno stranissimo miscuglio di epoche, dove il moderno fa a cazzotti col decadente e in mezzo resta un paesaggio difficile da recepire, almeno per i nostri canoni estetici. Potrei definirla come una curiosa mescolanza tra nuovo e vecchio che ti spinge, senza se e senza ma, diretto negli anni 80 (in realtà Coney Island cominciò a decadere già dopo la seconda guerra mondiale e solo recentemente il lungo mare è stato riqualificato). Anche qui tutto è commisurato alla grandezza fisica di questo stato, le spiagge sono lunghe e ampie e il lungomare rende onore al senso stesso della parola composta con cui è nominato. Il parco giochi si trova appena dietro e offre tutto quello che puoi aver visto nei film: c’è la celebre ruota panoramica e un sacco di binari d’acciaio che disegnano montagne russe, anche loro nuove e vecchie. Il profumo è evidentemente quello delle frittelle misto ai soliti panini ipercalorici, e la gente è un omogeneo miscuglio di famiglie e ragazzi, per lo più di origine ispanica. Anche qui, causa l’ormone, io ho fatto in tempo ad innamorarmi una decina di volte, mentre agafan, dolorante alla schiena, sdraiato su una panchina si è interrogato per minuti interminabili sull’efficacia o meno dell’osteopatia. A vederci dal di fuori più che una coppia di turisti parevamo Martini e Taber in libera uscita dopo che McMurhpy ha insegnato loro a sputare le medicine.
Insomma, nonostante l’apparenza, è stata una giornata idilliaca, almeno fino al momento del pranzo, quando Agafan decise di darmi la più grossa delusione della vacanza: si era infatti dimenticato di farsi dare dal suo amico l’indirizzo preciso del posto dove avremmo dovuto mangiare il re degli hot-dog e, considerando che a New York ovunque ti giri c’è qualcuno che sta assemblando un panino, trovare il locale giusto andando per tentativi sarebbe stato impossibile. Dopo un attimo di scoramento decidiamo dunque di virare su un’altra specialità culinaria, il burrito. Come due moderni Al Pacino ne ordiniamo due senza sapere che sotto questo nome che evoca tenerezza e simpatia (il mio prossimo gatto potrebbe chiamarsi Burrito), si nasconde in realtà un rotolo mostruoso ripieno di tutto e dal peso specifico di circa 2 kg. Finirlo è stata un’impresa, soprattutto per Agafan a cui il destino (o forse la pena del contrappasso) ha riservato la fortuna di degustare il suo piatto gomito a gomito con quello che sembrava essere il membro di una gang latinoamericana (di quelle dal nome spaventoso, tipo “i Diablos”). Questo gangsta provvisto di tatuaggi, panza alcolica e baffetti, sedutosi esattamente dietro il povero Aga (usando la sedia con lo schienale davanti per appoggiare i gomiti, come fanno nei polizieschi), ha passato tutto il tempo a urlare apprezzamenti alle ragazze che passavano di lì. Osservare l’occhio costantemente sul chi va là del mio compare, mentre un energumeno dietro di lui urlava senza sosta: “C’mon baby, give me your looooove” mi ha ripagato ampiamente della delusione di aver perso l’hot-dog più buono del mondo.
White Horse, il pub che non ti aspetti a Wall Street
Vi anticipo subito che non sappiamo se un posto simile possa definirsi caratteristico però, io e aga ci siamo trovati bene, quindi ve lo consigliamo. Immaginatevi una follia di grattacieli spropositata, immaginate Wall Street, Ground Zero (checché ne si pensi, il monumento in memoria dei caduti è toccante) e un sacco di gente che corre di qui e di là. Immaginate una passeggiata immersi in qualcosa di cui siete già perfettamente consapevoli, anche prendendo in considerazione una a una tutte le possibili trame del vostro destino, che non vi apparterrà mai.
Poi figuratevi un toro di bronzo, il simbolo del denaro per eccellenza che, nonostante sia il re dei bovini e sia ritratto in posizione d’attacco, è costretto impotente a subire migliaia di persone che vogliono toccacciarne i testicoli (foto esplicativa in gallery). Bene, poi immaginate di passeggiare col naso all’insù alla ricerca di nuvole vere e non le loro ombre riflesse in un pannello di vetro, pensando che forse, quelli che si mettono la carta argentata i testa per difendersi dalle scie chimiche, non sono così pazzi. Poi, dopo tutto questo, capitate per caso davanti a una piccola palazzina di soli tre piani. Talmente diversa da tutto il resto, che solo per questo motivo vi vien voglia di entrarci. Qui, un locale denominato The White Horse Taverne. Entriamo e, sorpresa delle sorprese, troviamo la barista bionda e attempata che volevamo, i nachos come piacciono a noi, una buona scelta di birre a un prezzo decente, una panchetta all’aperto dove poter fumare e una clientela autoctona che fa casino nonostante abbia a tracolla un portapc e non una macchina fotografica. Ci siamo tornati due volte, tutte e due le volte ne siamo usciti piacevolmente allegri e con la sensazione di sentirci a posto nel mondo. Anche in mezzo ai grattacieli.
Parte 2 – I luoghi che mi sono piaciuti #1 (29/09)
Parte 3 – I luoghi che mi sono piaciuti #2 (06/10)
Parte 4 – I luoghi che mi sono piaciuti #3 (13/10)
Parte 5 – I luoghi che Non mi sono piaciuti (20/10)
Parte 6 – Sensazioni sconclusionate (27/10)
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