Perché mi piace tanto House of cards e mi è piaciuto un po’ meno Suite francese

Domenica pomeriggio di tempo brutto, stanchezza accumulata dalla settimana, divano comodo e MySky installato. Quali migliori condizioni per godersi le puntate di settimana scorsa di House of Cards?

Non entro nel dettaglio degli episodi, nessuno spoiler questa settimana. E per  comprendere l’articolo non c’è nemmeno bisogno che l’abbiate mai vista questa serie nata per Netflix (servizio di streaming on demand della tv americana), interpretata da un immenso Kevin Spacey (quegli sguardi così inquietanti, da pelle d’oca, che mi ricordano tanto il suo Lester Burnham in American Beauty) accanto ad una smagliante Robin Wright (ogni volta che la vedo sullo schermo mi chiedo quali siano i suoi segreti per un fisico pazzesco e una raffinatezza innata).

House of Cards è una serie politica che parla di lobby, fame di potere, compromessi, intrighi e corruzione. Eppure non la guardo per niente di tutto ciò. Non mi interessa la politica, non simpatizzo per i potenti né sono incuriosita dalla loro scalata verso il successo. La guardo alla ricerca di un’unica cosa: il chiaroscuro, la soglia, il confine. Quel sottile limitare, quel piccolo momento di verità, quell’attimo in cui il potente si mostra umano, in cui il cattivo sembra buono. Sono piccoli spiragli, sembrano talvolta insignificanti e magari passano persino inosservati ad alcuni spettatori. Sono quei momenti in cui sveliamo la debolezza laddove si vedeva solo la forza, dove si intravede il sentimento quando invece regnava solo la razionalità, dove l’essere umano appare nudo e si scopre in tutta la sua vulnerabilità.

Non mi riferisco solo ad House of Cards, è un aspetto che, ho scoperto, amo in tutto ciò che incontro: al cinema, in tv, nei libri, forse anche nelle persone. È il motivo per cui non ho mai amato in modo particolare i film di Clint Eastwood o per il quale non mi ha entusiasmato Suite francese, in questi giorni nelle sale. Mi è piaciuto il film tratto dal romanzo della Némirovsky, non posso negarlo, ma queste storie “troppo facili” non mi convincono. Mi sembra troppo scontato coinvolgere il pubblico con una storia così classica. Per carità funziona, funziona anche su di me. Come si fa a non empatizzare con la protagonista del film, una giovane donna francese interpretata da un’eterea Michelle Williams, succube dell’algida suocera e che si innamora del passionale comandante tedesco ospite obbligato a casa loro, quando fuori imperversano gli scontri della seconda guerra mondiale?

Ecco, certo che mi piace, ho anch’io un cuore, eppure mi sembra tutto troppo facile, troppo scontato, poco sfidante per il regista che strapperà sicure lacrime alla visione (le mie per prime). Quando invece vedo o meglio intravedo Frank Underwood – alias il presidente degli Stati Uniti d’America ovvero il protagonista di House of Cards – mostrarmi anche per un attimo il suo dubbio, il suo secondo di pietà o passione, o l’istante in cui prova una briciola di sentimento… ecco lì per me è godimento puro.

C’è chi dice che Underwood è in realtà solo cattivo, non ha tentennamenti né momenti di umanità. Io non ci credo e continuo a guardare la serie alla ricerca di quegli sprazzi. Sono un’illusa? Probabile. Ma se la caccia al tesoro è troppo facile… che caccia è?

Su Elisa

Se si può dire di una cosa non facile nella mia vita è il rapporto con la scrittura… beh, ripensandoci, non è proprio l’unica cosa non facile. Ma d’altronde, se no, che noia sarebbe? A complicare il tutto, da buon Pesci, la costanza non è la mia dote migliore quindi su questo blog mi vedrete e non mi vedrete. Non sono parente di Houdini né tantomeno del divino Otelma, ma solo una giovane donna con la passione del cinema (odio quando mi danno della signora. Per galateo, dicono…). Sembro seria, ma non lo sono. E come potrei esserlo dopo aver scritto una tesi di laurea su Sex and the city?!?

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