Narcos, la storia di Pablo Escobar e del narcotraffico colombiano secondo Netflix

La serie Netflix sulla guerra al narcotraffico colombiano è ben fatta e rende in maniera puntuale un periodo storico che non solo ha cambiato il volto della Colombia di quegli anni, ma ha anche inciso a fuoco nell’immaginario collettivo le gesta di uno degli uomini più potenti e controversi degli ultimi 40 anni.

Da qualunque parte lo si voglia guardare, il personaggio di Pablo Escobar, ancora oggi, è ammantato dei contorni propri della leggenda. Ciò è merito non solo della crescita esponenziale di quei coglioncelli che inneggiano a lui per amor di cocaina e che, per lo stesso motivo, quando capitano in Sicilia si fanno fotografare affianco al cartello stradale di Corleone, ma perché davvero Escobar, nel realizzare il suo disegno criminale, ha raggiunto vette di successo (e follia) inimmaginabili. Nella sua faretra un’evidente capacità imprenditoriale, delle solide quanto semplici basi su cui fondare ogni trattativa (plata o plomo) e alle spalle un paese talmente sconclusionato da riuscire rendere tutto maledettamente possibile. Addentrarsi nell’argomento senza scadere nel banale o nel luogo comune, dunque, non è facile, eppure la prima serie di Narcos, riesce nell’intento utilizzando come armi principali il racconto puntuale di un periodo storico molto interessante e romanzando quanto basta per tenere lo spettatore medio letteralmente incollato alla poltrona.

Il regista José Padilha (autore tra l’altro dell’ultimo dimenticabile Robocop) ha cavalcato a mio parere in maniera egregia quel sottile equilibrio narrativo (il concetto di realismo magico citato a inizio serie non è buttato lì ad mentula canis) che ti lascia in bilico tra la sospensione del giudizio e l’indignazione, riuscendo sagacemente a deviare le prospettive e rompendo, nello specifico, i già labili confini tra il bene e il male: poliziotti che per provare a far rispettare la legge sono costretti a infrangerla, delinquenti spietati considerati dal popolo dei benefattori, sullo sfondo una politica interna corrotta e a dir poco inetta e, sopra ogni cosa, le esigenze economiche, di immagine, di vizio (gli Usa erano e sono il più grande consumatore di cocaina al mondo) del paese più ricco del globo. Tutto questo, Narcos ce lo racconta molto bene, grazie a una caratterizzazione dei personaggi azzeccata, una scelta degli attori valida, ma, soprattutto, una costruzione della trama e degli episodi decisamente intelligente.

Il rischio che venisse fuori un Padrino in salsa ispanica, infatti, era decisamente alto, eppure Padilha riesce a mischiare sapientemente un ritmo (quasi) da telenovela sudamericana a colpi di genio notevoli. Scene d’azione e momenti thriller si mescolano sapientemente venendo inframezzati ogni tanto da sequenze di intimità che lasciano a bocca aperta (la scena dell’arrivo dell’agente Murphy e di sua moglie all’aeroporto, è la mia preferita). In Narcos non c’è morale (a parte alcune sacrosante frecciatine sull’ingerenza americana nei fatti esteri), solo un intelligente racconto dei fatti e una squisita descrizione della Colombia. Perché se Escobar è il protagonista e la lotta al narcotraffico è la cornice in cui tutto si dipana, i co-protagonisti silenziosi della serie sono proprio questo paese e i suoi abitanti, vittime silenziose e inconsapevoli di un gioco di potere molto più grande di loro. Insomma io ve lo consiglio, tanto più che la seconda serie è già in lavorazione e si annuncia ancora più cruda della prima. Unico avvertimento, se decidete di immergervi nelle atmosfere di Narcos, tenete lontano da voi il cellulare. Io per dieci puntate ho alternato la visione entusiasta alla ricerca compulsiva in rete di conferme sui fatti e sui personaggi.

Vi levo dall’impiccio: fidatevi è successo tutto veramente.   

Su massimo miliani

Ho il CV più schizofrenico di Jack Torrence, per questo motivo enunciare qui la mia bio potrebbe risultare complicato. Semplificando, per lo Stato e per l'Inpgi, attualmente risulto essere giornalista.

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