Occorre partire da un presupposto: quanto leggerete, come sempre su questo sito, è rigorosamente di parte. Soggettivo e non condivisibile. Interpretabile e passibile di dissenso. Ma a sto giro allargo il presupposto: quella che scrive non è l’Elisa fan o emotiva, ma è l’Elisa (ex) sceneggiatrice – o presunta tale – o meglio la teorica della sceneggiatura, quella che l’ha studiata e che quando vede un film ben scritto va in brodo di giuggiole.
Premessa necessaria per i fan di Steve Jobs che già sento (anzi ho già sentito) dire che il film non rende giustizia al genio che fu, che riduce il personaggio alle sue creazioni non tra le più famose, al suo rapporto con la figlia, lui che di figli ne ebbe altri tre (oltre al fatto che “a me che me ne frega della figlia?!? Lui è il papà dell’iPhone altrochè di quella Lisa” cit.).
Niente, non mi convincete. Io l’ho trovato un film ben fatto, ben costruito, ben scritto e soprattutto ben congegnato. Forse rovinerò qualche sorpresa a chi non l’ha visto (che tra l’altro io il film l’ho dovuto scaricare – si può dire qui? – perché nei cinema è rimasto tipo tre settimane scarse), ma per commentarlo devo svelarvi almeno com’è costruito.
La pellicola prende tre episodi nella vita di Jobs, o anzi tre dei suoi famosi discorsi per il lancio dei prodotti, dal 1984 col primo Macintosh, fino al 1998 con l’iMac passando per il NeXT nel 1988, quando Jobs era stato cacciato dalla Apple e aveva fondato una sua società, poi confluita in “mamma Apple”. Tre discorsi di cui non ascoltiamo neanche una frase, non ne vediamo che il dietro le quinte, la preparazione, solo il “pre”.
Un film di impianto teatrale, che sfida il rischio claustrofobico di un’ambientazione quasi unicamente in interna con tanta macchina a mano e piani sequenza (ricordandomi il successo dell’anno scorso di Birdman e l’effetto – là – “boccata di aria aperta” nei rari momenti in cui la scena passava in esterna). Sarà che l’ho visto in una domenica piovosa dove la voglia di uscire, reale o metaforica, era ai minimi storici, ma io di boccate d’aria non ne ho avuto bisogno e di claustrofobia proprio non ne ho provata. Anzi.
Parlare di Jobs, scriverne e dirigere un film, è un rischio molto alto: troppo forte la sua personalità, troppo complesso il personaggio e geniale l’uomo per poterlo restituire in una (sola) pellicola. Ammetto di non aver letto la biografia a lui dedicata e da cui il film è parzialmente tratto (e mi riprometto di farlo presto perché dal punto di vista imprenditoriale il papà dell’iPhone mi incuriosisce parecchio) e quindi molte cose della sua vita non le conosco. Forse meglio così o forse proprio per questo il film mi è piaciuto tanto. Se l’intento della pellicola era di restituire l’interezza della personalità di Jobs, sarebbe stata comunque una battaglia persa. Diretto da un “non di primo pelo” Danny Boyle e scritto da uno “sconosciuto ai più ma noto agli addetti ai lavori” Aaron Sorkin, il film invece si pone come obiettivo un adattamento della vita del magnate di Palo Alto, raccontandone una parte, selezionando un tratto, una caratteristica.
Ci racconta la genialità incompresa di quest’uomo, il suo essere visionario, il suo essere talmente al passo coi tempi dal precederli, arrivando quasi oltre il tempo e lo spazio (tanto che, dei prodotti che gli vediamo presentare, due su tre sono epici fallimenti). E anche oltre i rapporti umani. Il film, infatti, restituisce soprattutto la sua non comunicabilità con gli altri (forse nemmeno così paradossale se pensiamo che le sue “invenzioni” hanno reso gli uomini sì più comunicativi ma in realtà tecnologicamente iper-connessi e umanamente distanti). La sua misantropia (detta semplicisticamente “il brutto carattere”) la esprime principalmente nell’unico rapporto che sembra mantenere più o meno intatto negli anni con il braccio destro-responsabile marketing Joanna Hoffman (per questo ruolo Kate Winslet è candidata agli Oscar) e nella difficoltà di relazione con la figlia (la Lisa che dà il nome al primo computer della Apple dotato di interfaccia grafica e di un mouse).
Da dove proviene questo suo caratteraccio? Un personaggio, più che una persona, che sembra indossare una maschera per mantenere il ruolo che si è costruito (ipotesi che avanza l’amico-socio Steve Wozniak, partner dei leggendari inizi nel garage)? O la maturazione difficile di un’infanzia complessa (Steve venne rifiutato dalla madre naturale e dato in adozione) come sostiene, invece, la figura simil-paterna del Ceo Apple John Sculley? Il film non sembra dare una risposta, ma scava nella psicologia dei personaggi. Riesce a raccontare bene queste sue caratteristiche, quindi non la totalità ma una parzialità di quel che è stato Steve Jobs. Sceglie tre momenti della sua vita, forse nemmeno i più cruciali, e narra nell’ellissi temporale anche ciò che non vediamo sullo schermo, senza annoiare i non-computer addicted (merito di quel dialogo serrato e dinamico che tanto ricorda un altro film di ambito informatico, The social network, non a caso scritto dallo stesso sceneggiatore); senza risultare statico (nonostante la fissità dell’ambientazione) ed emozionando senza cedere al patetico, evitando di raccontare i momenti più bui e tristi della sua vita (malattia compresa).
Dissentite quanto volete. Niente da fare. Per me il film è un sì pieno!
Valutazioni emotive
Felicità:75%
Tristezza: 82%
Appagamento: 95%
Profondità: 87%
Indice metatemporale: 99%