Lingua-madre---Maddalena-Fingerle

Lingua madre – Maddalena Fingerle

Lingua madre di Maddalena Fingerle con una prosa fresca e audace, capace di immergere il lettore mentre lo stordisce, propone questo racconto allucinato, una specie di diario di pensieri che seguono il filo instabile di un viaggio tutto compreso nella mente del protagonista, sulla rotta Bolzano-Berlino e ritorno.

Lingua madre di Maddalena Fingerle

Mia madre dice che bisogna parlarci, con le piante, e io ci provo, anche se non so cosa dire e recito qualche poesia a caso, ma mi sento scemo e quindi no, non lo farò mai più, che si tengano l’afasia. Però ci provo con papà: Sempre caro mi fu quest’erto corno / pensa il rinoceronte / senza nessuno intorno. Papà? Lui sorride, ma continua a non parlare. Le piante di case nostra sono inutili perché non sanno sorridere.

Ancora una volta mi sono trovato di fronte all’esordio da sballo di una scrittrice italiana, dopo La mischia di Valentina Maini (leggi la recensione) e L’esercizio di Claudia Petrucci (leggi la recensione). È evidente che non perda occasione per citare gli ultimi due, cosa volete che vi dica, quando mi emoziono divento pesante, beh sappiate che anche questo Lingua madre verrà aggregato al carrozzone dei reiterati consigli di questo insignificante lettore.

Con una prosa fresca e audace, capace di immergere il lettore mentre lo stordisce, Fingerle propone questo racconto allucinato, una specie di diario di pensieri che seguono il filo instabile di un viaggio tutto compreso nella mente del protagonista, sulla rotta Bolzano-Berlino e ritorno. Bolzano da cui scappare, Berlino che si rivela un rifugio ricreatore e un ritorno a casa che, invece di un nuovo inizio, crolla nella riproposizione drammatica del punto di partenza.

La parola al centro di tutto. Se più avanti vedremo come occupi i pensieri del protagonista, ora sottolineerei la capacità di parola della scrittrice. Fingerle trova una chiave di scrittura molto espressiva, in grado di ricreare un pensiero maniacale, curando le parole con un’attenzione sorprendente, senza perdere di vista la struttura d’insieme. Riesce a proporsi allo stesso tempo elegante ed efficace, restituendo con penna sensibile un complicato mondo interiore. E poi, in questo credo fermamente, come le fuoriclasse, sa cambiare ritmo alla bisogna, dosando la prosa a suo piacimento e nostro godimento. Non ci sono dubbi che con questa prova abbia sfoggiato un talento fuori dal comune.

Le parole

La protagonista più in vista nel libro è la parola. Paolo Prescher (anagramma di parole sporche, questo l’ho letto che con la mia perspicacia abbandonata in culla non ci sarei arrivato) fin da piccolo ha un’attenzione spasmodica verso le parole, un’ossessione ben resa dalla scrittura. Odia le parole sporche e, di conseguenza, chi gli sporca le parole.

Le parole pulite sono così: dici una cosa e intendi quella cosa, sono vere e limpide, non ci sono associazioni mentali che le rovinano, che le macchiano o che le sporcano.

Lingua madre

L’autrice ci immerge nella mente di Paolo che è asserragliato da quest’idea della pulizia delle parole. In famiglia si sente prigioniero, come anche nel mondo, perché tutti attentano alla pulizia delle parole, solo il padre afasico non è percepito come un nemico. Anzi, proprio per il padre Paolo vorrebbe trovare le parole pulite che restituissero la parlata a questo genitore amato ma con cui comunicare è complicatissimo, pressoché impossibile.

Così Fingerle ci conduce tra le regole di questo gioco di relazioni tra le parole e le associazioni a cui Paolo le sottopone, in un rimando senza fondo che non permette alla parola di essere sé stessa, di stagliarsi come verità comunicativa mondata dalle intenzioni infime delle persone che, enunciando le parole, le insudiciano anche al protagonista, perché a quel punto è costretto a considerarle nella distorsione che ne viene dagli altri.

Relazioni e identità

[…] Ho gli occhi davvero vuòti e non, come diceva l’amico di Mira, vuóti, perché vuóto è meno vuòto, non è vuòto per davvero: è stretto, è pieno, è come cuóre, che non si può essere grande come cuòre, ma è stretto e intricato. Io non ho più un cuòre, ho solo un cuóre stretto stretto e anche se dico assaje, ormai non funziona più, non riempie il vuóto, il cuòre e tutto il resto. Non posso stuccare le parole con il calore dell’assaje perché anche l’assaje è freddo, ormai.

E poi c’è tutto quello che il mondo di Paolo contiene. Questa concezione quasi platonica della parola come idea perfetta contaminata dal mondo esperienziale rimanda alle difficoltà che Paolo incontra nell’approcciarsi al mondo. La sporcizia delle parole rispecchia quella delle persone, l’incapacità relazionale che conduce il protagonista in un isolamento autoimposto, frutto dell’incomprensione che sente tutt’attorno. L’unica persona da cui si sente capito non parla, la parola è tranciata nell’unica relazione che agogna e dunque l’incomunicabilità con il mondo diviene cifra assoluta.

Quanto il meccanismo di Paolo sia arbitrario diviene palese nella sua relazione con Mina che incontra quando maggiorenne scappa da Bolzano per andare a Berlino. A Berlino, parlando tedesco e pensando in italiano, trova una maggiore pulizia della parola, di una parola però che non è la sua, quella della sua infanzia, della sua identità. Identità che d’altronde fatica a riconoscere, infatti non compila la dichiarazione di appartenenza che viene richiesta con la maggiore età: non si identifica con nessuna delle parti in causa, o forse con tutte, di certo non vuole entrare nel meccanismo falso della società in cui vive.

A Berlino dunque incontra Mina che gli pulisce le parole, quelle italiane. Da un lato Mina era già designata a questo compito dall’attrazione che Paolo ne prova, dall’altro il suo farlo sentire a proprio agio, coinvolgerlo in una vita attiva, ricca anche di amicizie, pulisce il suo linguaggio perché Paolo si sente capito, le associazioni di cui Mina è portatrice sono positive, così come anche quelle dei nuovi amici: la parola ha preso a respirare di aria nuova, Paolo ha cominciato a vivere nel mondo, la pulizia della parola è guidata dall’arbitrarietà relazionale del protagonista.

Paolo prende talmente tanta sicurezza da tornare a Bolzano con Mina. Fingerle non smarrisce l’ispirazione per la via, perché questa parte conclusiva ha una forza sconsiderata. Quello che per Paolo doveva diventare un nuovo inizio, il ritorno alle origini con una nuova identità rivendicata, si rivela un ennesimo blocco. All’inizio sembra che tutto proceda per il meglio, ma qualcosa dentro Paolo si incrina e la sua vita precipita nuovamente nel baratro del suo mondo interiore. Questi passaggi sono scritti in maniera fantastica, con una resa straziante.

Maddalena Fingerle – Lingua madre – Italo Svevo

Voto - 91%

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Su Giuseppe Ponissa

Aga la maga; racchetta come bacchetta magica a magheggiare armonie irriverenti; manina delicata e nobile; sontuose invenzioni su letto di intelligenza tattica; volée amabilmente retrò; tessitrice ipnotica; smorzate naturali come carezze; sofferenza sui teloni; luogo della mente; ninfa incerottata; fantasia di ricami; lettera scritta a mano; ultima sigaretta della serata.

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