Il figlio di Gina Berriault non fa che confermare lo spropositato talento della scrittrice, mettendo in mostra la sua prosa limpida e capace di strappi folgoranti. C’è poi quell’eleganza mai ingessata che le permette di affondare i colpi con una lucidità disarmante. La prova più lunga le concede di affilare la costruzione di un personaggio scomodo.
Il figlio di Gina Berriault
Andò spesso nell’appartamento di lui, e rimanevano l’uno nelle braccia dell’altra per ore, cercando un tenero rispetto reciproco che teneva conto delle mancanze e degli errori; ma sempre, quando lui si alzava dal letto e lei rimaneva distesa a guardarlo vestirsi, con la camicia che gli cadeva come una tenda intorno ai fianchi, la visione le risultava in qualche modo angosciante e come priva di futuro.
Dopo aver letto, di Gina Berriault, Piaceri rubati (leggi la recensione) e Donne nei loro letti (leggi la recensione), grazie all’importante lavoro di Mattioli1885 mi sono buttato su Il figlio. Stregato dalle raccolte di racconti, non è che avessi molta scelta: questo romanzo, la terza pubblicazione in Italia di un’autrice che meriterebbe ben altri spazi, non poteva sfuggirmi.
Si tratta di un romanzo breve, in cui l’indole da scrittrice di racconti fa capolino, senza per questo togliere respiro alla narrazione; più che altro ci sono pagine che si illuminano di una luce più intensa, dove Berriault riesce a ritagliare spazi di righe meglio incorniciate. Detto questo, il lavorio costante della prosa non viene mai meno, non procedendo certo a singhiozzo, ma riuscendo a mantenere l’intensità.
Questa terza lettura non fa che confermare lo spropositato talento di Gina Berriault, mettendo in mostra la sua prosa limpida e capace di strappi folgoranti. Come ho già scritto per gli altri libri, c’è poi quell’eleganza mai ingessata che le permette di affondare i colpi con una lucidità disarmante. La prova più lunga le concede di affilare la costruzione di un personaggio scomodo, sparpagliando per le pagine schegge di profondità tessute su un telaio solido.
Come faccio a non farmi prendere la mano di fronte ad una prosa del genere, mi si offusca l’intenzione di lettore.
Vivian
Vivian simpatizzava per quel bisogno di esibirsi del marito, di mostrare agli altri ciò che si attendevano lui facesse, ma ancora una volta, come le era accaduto con il suo amante, lo speaker, e come per Paul, la sua empatia era frenata dalla convinzione che un uomo non avesse davvero bisogno di quel tipo di comprensione: un uomo avrebbe potuto benissimo farcela senza, e concedergliela sarebbe stato come levargli un po’ della sua mascolinità; più comprensione gli concedeva, più mascolinità gli veniva sottratta, e minore era la sua attrazione per lui.
Vivian, ragazza di buona famiglia degli anni ’40, appena dopo la laurea comunica alla famiglia l’intenzione di sposare Paul, aspirante attore. Sarà la prima di una serie di relazioni sbagliate, la cui importanza è dettata dal concepimento del figlio David, unica costante nella vita della donna.
Quella ribellione alle aspettative familiari rimarrà abortita, perché Vivian torna nell’alveo familiare, riconnettendosi alle aspettative sociali che la attendono al varco. Persino la scelta avventata di quel matrimonio nasce da una matrice emozionale distorta, dato che Paul è il fratello dell’amante del padre, amante che è anche una sua amica. Un doppiofondo sentimentale che accompagnerà Vivian per tutta la vita: ciò che deve essere fatto per la facciata e ciò che viene covato in segreto.
Così Vivian passa la vita alla ricerca di approvazione, sia familiare che sociale, tentando di incastonarsi nel ruolo previsto per lei, come per tutte le donne benestanti: madre premurosa, moglie accondiscendente, signora da serate eleganti. La sua attività affannosa sfocia in una costante tensione verso l’insoddisfazione, un’incapacità di esprimersi che la sbanda senza appigli.
Vivian è una donna attraente, ogni tanto prova a lavorare, ma soprattutto si appiglia agli uomini per poter avere l’illusione di compiutezza, ma naturalmente non ne scaturiscono che rapporti problematici. Sente l’esigenza impellente di essere necessaria agli uomini, adattandosi alle loro esigenze finché il gioco non scopre il dolore. Persino la disinvoltura con cui sfrutta la propria sensualità non trova pienezza ma solo angoli di disperazione. La concretezza della prosa si sviluppa in una corporeità incombente, sviluppata senza mascheramenti nella quotidianità e nella naturalezza inevitabile.
Vivian indossa costantemente una maschera, ma non riesce nemmeno a trovare quella che le calzi.
David
Lui era suo figlio; lei gli aveva dato la vita e la giovinezza, il presente e il futuro, la sua inafferrabilità, e dicendogli che sapeva l’effetto che lui aveva sulle altre donne, gli stava ricordando il proprio diritto su di lui, se quel diritto doveva appartenere a qualcuno.
Naturalmente c’è poi David, il figlio. Cresciuto all’ombra della madre che si appiglia a lui come all’unica certezza, unico centro di gravità nella centrifuga dei passaggi di tempo e uomini. Il rapporto tra madre e figlio non è lineare, segue i capricci delle emozioni della madre, preso in trappola da esigenze senza scampo. Un rapporto inciso sul corpo di Vivian, una donna che riversa sul figlio le esigenze inespresse della propria volontà, la ricerca di controllo del desiderio altrui.
Ne scaturisce un attaccamento morboso, da entrambi i lati, che conduce ad una conclusione aberrante ma conseguente. David non riesce a sviluppare una vita autonoma, ma vive per contrasto, negli spazi emozionali che gli concede la madre, la quale punta all’unico controllo che si sente di avere: David è il riflesso di Vivian, il riflesso di uno specchio rotto. Tanto è vero che il lettore conosce il figlio solo attraverso gli occhi della madre.
Per potersi liberare di questa catena deve avvenire l’atto di rottura che risulta essere l’unione finale, l’errore più grosso, l’esplosione che finalmente li allontana.
Il personaggio di Vivian è scomodo, non attira le simpatie del lettore, Berriault sa scavarne le debolezze senza scampo, illuminandola di una tenue luce sbilenca, risaltandone le ombre allungate verso un chiarore artificiale che non sa raggiungere e nemmeno capire.
Gina Berriault – Il figlio – Mattioli1885
Traduzione: Nicola Manuppelli