Fu come uno schiaffo a bruciapelo. Come lo spintone di un amico quando sei distratto e stai guardando altrove. Scoppiò letteralmente a ridere, come non gli succedeva da tempo. Il volto gli si rigò di lacrime e iniziò a sudare. Provò a contenersi, ma si arrese subito, e i Clash che gli rimbombavano nelle orecchie non fecero altro che peggiorare la situazione.
Rudie Can’t Fail.
La bimba nel vederlo ridere così si avvicinò, anteponendo tra sé e quel curioso uomo il suo pupazzetto macina chilometri.
La vide avanzare incerta ma era troppo preso a ridere per cercare di evitarla. Sapeva che non c’era niente di realmente divertente, eppure non riusciva a fermarsi. Rideva della sua continue attese, dei suoi blocchi. Rideva del suo modo di vivere la sua esistenza, o meglio, di pensarla. Rideva del fatto che per tutta la sua vita aveva vissuto guardandosi alle spalle, incatenandosi a paure e rituali che gli consentivano di fare l’unica cosa che sapeva fare, e cioè scappare. Ma più di tutto, rideva del fatto che Stefania, Sara e tutte le altre, probabilmente, avevano iniziato a ridere di lui molto prima. Tra la stazione Centrale e via Andrea Doria la sua vita gli passò davanti agli occhi con la potenza di una slavina che corre verso valle. Vide scorrere ogni scelta fatta, ogni decisione presa, ogni singola variazione di ritmo che, in maniera del tutto inesorabile, lo avevano portato lì in quel preciso momento, su quel bus, vestito in anonima gradazione di grigio. Tutto gli sembrava chiaro.
Fuori, Milano grondava acqua e il bus che correva sulla preferenziale vuota trasformava le auto in coda in un fiume luminoso e bicolore. Davanti agli occhi gli scorrevano il catalogo di giardinaggio, poi la chitarra e poi ancora un telefono nuovo. Aprì gli occhi e vide la bambina e il suo pupazzo che lo fissavano in silenzio dal seggiolino di fronte a lui. Lei lo guardava e a ogni suo scatto di risa, rideva a sua volta. Aveva una risata bellissima, squillante.
E pensare che lui i bambini aveva sempre avuto paura di farli piangere.
Cercò di darsi un tono, avrebbe voluto spiegare, raccontare una bugia comprensibile per una bimba, ma non ci riuscì e continuò a ridere. La madre accortasi della scena, schioccò gli artigli arcobaleno e richiamò all’ordine la figlia che sorridendo tornò al suo posto. Le luci di piazzale Loreto gli servirono per ricomporsi, slacciare un bottone della camicia e rendersi conto che a breve sarebbe arrivata la sua fermata. Ancora rosso in volto si alzò, e con lui la mamma e la bambina. La piccola, incurante delle occhiaie della madre volle a tutti costi essere presa in braccio per pigiare il bottone della chiamata e, quando il campanello trillò, sorrise felice. Si sentiva stranamente bene. Prese una vecchia ricevuta dal portafogli e con quattro mosse la trasformò in un cappellino di carta, come usavano i muratori nei suoi ricordi d’infanzia. Una volta completata l’opera si avvicinò alla bambina e lo mise sulla testolina del pupazzo.
“Così non si bagna mentre corre verso casa”
Le porte si aprirono e lui scese per primo, con un salto atterrò sul marciapiede e con altri due passi arrivò sotto la tettoia del palazzo di fronte. Pioveva ancora forte, l’acqua vaporizzata gli bagnava la faccia e iniziava a macchiare le spalle del giubbotto. Si sentiva stranamente leggero, Milano sapeva di buono e le sue cuffie gli offrirono la più bella canzone degli Smiths. Guardò la 90 andarsene e pensò che nonostante la pioggia fosse una gran bella serata.
Aveva una gran voglia di vedere un bus a due piani.
E di un bicchiere di vino bianco.
Take me out tonight.
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