Tutti conoscono Chef Carlo Cracco, la sua barba e la sua voce da tre anni entrano stabilmente nelle case degli italiani. Ma quanti possono dire di aver “realmente provato” la cucina di Mister Masterchef? Noi abbiamo fatto quattro chiacchiere con Luca Sacchi, sous chef di Re Carlo presso il ristorante Cracco in via Victor Hugo a Milano: un talento precoce e con le idee chiare. Ecco cosa ci ha raccontato.
Entrare da Cracco, anche se sono le 9 della mattina, fa sempre un certo effetto. Il nome, ovviamente, fa il suo gioco, ma anche la disposizione dei locali, così atipica con quella scala che porta in basso, nella “tana” di uno degli chef più amati e conosciuti d’Italia, contribuisce all’idea di entrare in una sorta di luogo eletto. Ci troviamo qui (io e Clara) perché abbiamo un appuntamento con Luca Sacchi, da qualche mese sous chef di Carlo Cracco al posto di Matteo Baronetto. Talento precoce (è nato nel 1986), Sacchi prima di approdare alla corte di Cracco si è fatto le ossa presso La Cassinetta, Antica Osteria del Ponte, altro luogo mitico per i gourmand lombardi e di tutto lo stivale. Lo incontriamo in uno dei rari momenti di pace della sua giornata, seduti a un tavolino, mentre parte dello staff è intento a rifinire le pulizie di rito (ed è curioso notare come persino il suono dell’aspirapolvere, in questi locali, assuma un suono, se non bello, di certo meno fastidioso) e i fornitori salgono e scendono portando materie prime che, purtroppo, posso solo immaginare.
Con una professione difficile e atipica come la tua, come gestisci il tempo? Semplicemente non lo gestisco. È impossibile riuscire a farlo. Dal punto di vista privato, volta per volta calcolo quello che mi avanza e mi regolo di conseguenza. Io la settimana alle 8 sono qui, poi stacco un’ora il pomeriggio e finisco a notte fonda. Se c’è un modo per incastrare facilmente gli impegni, beh, io ancora non lo conosco.
In una giornata così piena e scandita da orari stretti, come gestisci l’aspetto creativo della tua professione? Riesci a sperimentare? Ti ritagli dei momenti dedicati solo a quello? Non c’è un tempo dedicato alla sperimentazione, noi sperimentiamo tutti i giorni. Soprattutto qui, da Cracco, ha sempre funzionato così. Se scatta qualcosa, se viene un’idea, va provata subito.
Cosa pensi dello show cooking? Ce ne sono di due tipi: quello professionale destinato agli addetti del settore, che reputo stimolante sia per chi lo esegue sia per chi assiste. Poi c’è lo show cooking spettacolare, quello realizzato per il pubblico. Non lo demonizzo, ci mancherebbe, ma per quel che mi riguarda non suscita molto interesse.
Parlando di show cooking votato allo spettacolo, qual è l’ingrediente del successo? La presenza del cuoco famoso oppure la possibilità di imparare qualcosa, magari un segreto culinario… Ammesso che esista il segreto per cucinare bene, io penso che possono valere entrambe le cose. Il cuoco “tira” non c’è dubbio, ma c’è anche la componente affascinante di vedere la nascita di un piatto dal vivo e sotto i tuoi occhi.
Quali sono i tuoi chef preferiti? Che apprezzo, nel senso di ammirazione vera, cito Matteo Baronetto con cui ho lavorato 10 anni e da cui ho imparato molto. Ma ce ne sono tanti che mi piacciono: Ferran Adrià uscirà con qualcosa di nuovo a breve, ed è uno di quelli che ha segnato la cucina in maniera possente. Un altro che apprezzo parecchio è Lopriore. Poi io sinceramente seguo tutti, ma non ne provo tanti, per il solito motivo: non ho molto tempo…
La cucina grazie anche a Cracco è diventata completamente mediatica, questo, si suppone, porta dei vantaggi e degli svantaggi. Quali sono secondo te? Lo svantaggio più grande è che l’esposizione mediatica “convince” le persone di conoscere cose che in realtà ignorano. Il vantaggio, invece, è l’aspetto positivo di questa aberrazione: molta gente ha finalmente accesso a numerose cose che fino a ora non poteva conoscere. Un ragazzo come me, che vuole fare questo mestiere, ora può conoscere aspetti a cui prima non poteva minimamente accedere.
Quanto conta lavorare a Milano? Dipende sempre da quello che uno vuole fare. Una realtà importante, con 30 dipendenti, a Milano ha molte più probabilità di successo. Qui c’è tutto: il turista casuale, il turista ricco, i cittadini appassionati e poi c’è una grande varietà di cultura culinaria.
Tornando al tuo lavoro, cosa conta di più tra testa e manualità? Dove lavoro io, una realtà di 15 persone, la testa è fondamentale. Per riuscire a far andare avanti una brigata di più elementi è essenziale un lavoro di testa. Poi, è evidente che questo lavoro si compone di una mix sapiente di questi due elementi, ma con la sola manualità non vai da nessuna parte.
Hai mai fatto un errore di quelli gravi e indimenticabili? Diciamo che per ora non ne ho fatti di enormi. Però una volta, quando ero più giovane, rovesciai una boule di salsa di pomodoro che serviva per la parmigiana di un banchetto di un centinaio di persone. Diciamo che fu parecchio stressante…
La cucina è organizzata in maniera gerarchica e quasi militare. I racconti che vengono fuori, spesso sembrano essere ai limiti del nonnismo. Un mio amico parlava di di “torcioni” (straccio arrotolato con cui frustare il malcapitato di turno) immersi per giorni nell’amido per essere più dolorosi… I torcioni sono un metodo dozzinale. Si può fare molto di peggio e in maniera molto più sottile. Parlo di stress psicologico, forzature mentali di vario tipo (ride). A parte gli scherzi, tutto ciò in misura più o meno evidente, esiste in ogni realtà che abbia un obiettivo forte, come ad esempio un ristorante stellato. È una sorta di motivazione ad andare avanti e di continuare a farlo a livelli molto alti.
Come ti comporti se scopri un giovane lavapiatti con il sacro fuoco della cucina? Lo fai crescere con tranquillità oppure lo bastoni per metterlo alla prova? Diciamo che utilizzo il metodo del bastone e della carota. Se è dotato, basta semplicemente indirizzarlo, poi sarà lui a crescere a fare il resto.
Un tempo l’alta cucina era considerata esclusivamente “piatto vuoto, conto salato”. Come far cambiare idea a chi è ancora convinto di ciò? Allora, qui è giusto fare chiarezza. Questa fu una fase dell’alta cucina ormai vecchia di 20 anni. E poi, oltretutto, il “piatto vuoto” non è mai stata un’abitudine italiana, semmai francese. Da noi, ad esempio, realizziamo menù degustazione da numerose portate col quale esci senza dubbio sazio, non appesantito e, ve lo posso garantire, soddisfatto.
Il chilometro zero, la cucina biologica, l’attenzione alle materie prime. Sono una moda passeggera per intellettuali snob, oppure sono destinati a restare? Sicuramente il là di queste abitudini è stato offerto dalla mediaticità della cucina attuale. Però, va anche detto che questa nuova visibilità della cucina ha portato a rendere accessibili una serie di conoscenze che in qualche modo hanno sensibilizzato in maniera radicale le persone. Io credo che questa attenzione sarà destinata, per fortuna, a crescere ulteriormente.
Cosa pensi di Tripadvisor? Secondo me Tripadvisor è un gran calderone dove trovi tutto tranne la verità. A rigor di logica il concetto su cui è fondato è sensato e corretto, però poi, utilizzandolo, ti accorgi che mostra il fianco a parecchie critiche. Un esempio lampante è proprio il ristorante dove lavoro. Da noi è molto più difficile avere un giudizio reale, perché il nome scritto là fuori porta giudizi che spesso si antepongono alla reale qualità percepita.
E quindi, cosa consigli? Io credo che le guide, se non altro perché redatte da dei professionisti, danno le garanzie che servono per non incappare in brutte sorprese.
Parliamo di te, scendiamo nel privato. Cucinare bene aiuta a portarsi a letto una donna? Dipende da chi hai davanti. Ci sono persone totalmente insensibili a questa arte… Su quelle sensibili, lo ammetto, un vantaggio ce l’ho.
La cucina è un ambiente dove nascono facilmente relazioni tra colleghi? Sempre insieme, sempre a stretto contatto… Ne offre la possibilità, sei a contatto con le persone per molte ore e per diversi giorni. Però non è automatico, lo stress in cucina è tanto e non è d’aiuto per le relazioni.
Anthony Bourdain in Kitchen Confidential ha parlato di uso diffuso di cocaina nelle cucine, fondamentale a suo dire per reggere ritmi e stress sempre molto alti. Confermi? Secondo me un po’ di anni fa questa “usanza” era molto più diffusa. Ad esempio a Parigi, le brigate erano enormi e lo stress elevatissimo. Io credo che ci può stare che un tempo gli chef facessero uso di sostanze per “reggere” i ritmi, ma ora i tempi sono cambiati. L’organizzazione è migliore, la tecnologia e i miglioramenti di molti altri aspetti hanno limitato questo fenomeno. E poi, un tempo, il cuoco era l’ultima ruota del carro, non aveva i privilegi e i riconoscimenti di cui gode ora. Oggi è diverso, anche a livello di soddisfazione psicologica.
Come intervista lo trovata molto bella